martedì 10 marzo 2020

Il decreto coronavirus e la pericolosa deriva verso le grida manzoniane

Grazie al suo genio divino, Alessandro Manzoni nel 1800 ha anticipato quanto oggi accade in Italia per via del coronavirus. Pensate alle grida manzoniane nell’inarrivabile romanzo “I promessi sposi”. È il Manzoni a dirci quale fosse il fine ultimo delle grida: disposizioni accomunate da titoli altisonanti. Condite da linguaggio contorto e articolato. Un cocktail acido composto da dettagli oscuri. Vi si annunciavano pene severissime, con riferimenti a normative che rimandavano ad altri commi e cavilli. Ma alla fine, ci spiega lo scrittore, poeta e drammaturgo italiano (nonché veggente, a questo punto), qualora l’individuo se ne fosse infischiato, poco o nulla gli sarebbe accaduto. Cosicché quelle regole così astruse e ingarbugliate venivano perlopiù disattese.

Sentiamo la singola grida del 1584 di don Carlo d'Argon. Un tipo che comandava, aveva bei vestiti e un sacco di titoli: principe di Castevetrano, duca di Terranuova, marchese d'Avola, conte di Burgeto, grande ammiraglio e Gran contestabile di Sicilia, governatore di Milano e capitano generale di sua Maestà Cattolica in Italia: “Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà essere tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno. ... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo ... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo”.

Che cosa ha detto don Carlo d'Argon? Non lo sa neppure lui.

Ma veniamo al nostro decreto coronavirus. Qui ci trovi obblighi, disposizioni imperative, consigli, raccomandazioni, vive raccomandazioni. Evitare ogni spostamento di persone fisiche in entrata e in uscita dai territori, dice il decreto. Non obbliga. Raccomanda. Sarebbe meglio che. Parrebbe opportuno che. Salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. Quella stessa raccomandazione cade se hai un motivo valido per non seguirla, e quel motivo valido lo costruisci da te mediamente autocertificazione.

Passiamo alla pena imposta dal decreto coronavirus. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3 comma 4 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6. Domanda: se non ci sono obblighi, ma raccomandazioni, e se queste raccomandazioni non valgono in caso di necessità, e se la necessità la comunico mediante autocertificazione, quale pena impone il decreto a un obbligo che non c’è?

Mi spiego meglio. Quando, da bimbi (che nostalgia), i miei amici e io facevamo casino all’oratorio rubando le caramelle (sì, brucerò tra le fiamme dell’inferno), la perpetua si raccomandava di non farlo più il giorno seguente. Si raccomandava. Un caldo consiglio. Che chiaramente veniva disatteso da tutti i piccini (sì, vi ritroverò all’inferno, tutti). Se da bimbo facevo il monello a casa, mio padre non mi faceva più uscire e, quando il caso, poggiava delicatamente la sua manina sulla mia guancia, lasciando un segno che durava ore: quella era la (giusta) pena per un obbligo disatteso (e per la quale ringrazio tuttora il mio splendido papà che non c’è più).

Che cosa può succedere ora con questo decreto? Il principio base è sacrosanto: io resto a casa il più possibile affinché il coronavirus crepi. Ma se manca il cuore pulsante del decreto che impone di tenere un certo comportamento, se non c’è la punizione che segue alla mancata osservanza di una norma semplice e chiara, allora prevedo per il decreto coronavirus la pericolosa deriva verso le grida manzoniane.

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