sabato 31 dicembre 2016

L’Antitrust contro le bufale su Internet: le mie 5 considerazioni

Giovanni Pitruzzella, presidente Antitrust, dichiara guerra alle “bufale su Internet”. Le notizie false sul web. La fake news. Lo fa sul Financial Times. Traduco dall’inglese all’italiano, così però lasciando spazio a un numero enorme di errori, come sempre accade in questi casi. Inoltre, estrapolo dal contesto, ragionato e argomentato: in stile giornalismo-spazzatura. L’ultra-sintesi che devasta il pensiero di chi l’ha espresso. Me ne scuso con Pitruzzella e con voi lettori. Se desiderate approfondire per fatti vostri, questo il link https://www.ft.com/content/e7280576-cddc-11e6-864f-20dcb35cede2 (serve la registrazione). Comunque, grosso modo, Pitruzzella vuole creare enti indipendenti coordinati da Bruxelles. Questi enti prenderebbero ispirazione dagli Antitrust. Obiettivo: beccare le bufale, farle sparire e multare eventualmente chi ha sparato la fesserie. In basso, per quanto ve ne possa importare la mia opinione. In qualità e di giornalista web e di lettore di news online.

1) Non mi piace metterla su questo piano: sminuire l’importanza di quanto ha detto Pitruzzella. Della serie: perdiamo tempo a parlare di bufale in rete, mentre c’è la fame nel mondo. Pur tuttavia, mi permetto di far notare che Internet è pieno di feccia: l’obiettivo numero uno è sventrare chi fa commercio illegale nel deep-web, smerciando qualsiavoglia bene, servizio, orientamento politico.

2) Vai a uccidere le bufale in rete? Ok. In parallelo, però, spacchi le bufale sparate su qualsiasi mezzo di comunicazione: carta stampata, radio, tv, segnali di fumo degli indiani, giornalini di parrocchia, social network, chat. È sbagliato partire dal presupposto che la bufala inizi dal basso. Chi mette la bufala in giro non è un idiota psicopatico. Dietro, spesso c’è la politica. Per indirizzare, persuadere, far presa sulle masse. Si parte da programmi tv che estraggono il cervello dal cranio, poi la lobotomia passa per i social network e viene alimentata dalla rete.

3) Chi piazza la bufala sul web è, in genere, consapevole di quel che fa. Ha in mente la creazione di un business basato sulle scemenze. Però è tecnologicamente un nano. Un qualsiasi gigante ha la possibilità di stroncarlo alla nascita. Basta premere un pulsantino. Allora, sarebbe sufficiente imporre al colosso di fare piazza pulita. Se il big non si muove, è perché anche a questa entità superiore le bufale piazzate dai nani fanno gioco: soldi e potere. Ma questo, in un mondo democratico basato su una sana Costituzione, non è proponibile: la parola censura fa rima con dittatura. 

4) Pitruzzella ha detto: “In politica la post-verità è uno dei motori del populismo e una delle minacce alla nostra democrazia”. Vero. Però anche la censura è nemica della democrazia. Sentiamo Pitruzzella: “[...] to control information [...] is historically the job of public powers. They have to guarantee that information is correct”. Sarà. Tuttavia, chi controlla i pubblici poteri? Insomma, l’Antitrust delle bufale non deve diventare un formidabile strumento di potere, in cui la figlia di un uomo potente e nonché amichetta di un altro uomo potente dispone della facoltà di selezionare le notizie che le piacciono. Nessuna santa inquisizione con un deficiente amico dei potenti che stanga i deboli. Vuoi salvare la democrazia facendo a pezzi la democrazia. Mmm… Non può esistere il depositario della verità. Se invece si crede questo, si sfocia in intolleranza e fanatismo. Di cui il mondo già trabocca.

5) Chi stabilisce se una certa notizia è una bufala? Un Antitrust mondiale delle bufale. E chi seleziona le persone che fanno parte di quell’Antitrust? Attenzione: niente figli, cugini, amanti dei potenti. Il modello per costituire gli 007 del Garante non dev’essere da Quarto Mondo: occorre un criterio moderno. A loro volta, questi agenti dell’Antitrust dovranno essere controllati da giudici imparziali; che verranno controllati anch’essi. Un circolo virtuoso in cui nessuno vince. Come a poker: non esiste un punto vincente al 100%; c'è sempre la possibilità che qualcun altro abbia in mano un punto superiore al tuo. Mi pare impossibile, alla fine, un Antitrust delle bufale.

mercoledì 6 gennaio 2016

“Quo Vado?” di Checco Zalone: non un film comico; non una commedia; ma un documentario sull’Italia

Il posto fisso, afflizione dell’italiano medio. Con le famiglie disperate perché figli e nipoti sono disoccupati. Con la piccola e media borghesia italiana angosciata dal futuro precario dei parenti stretti. Aggrappata al potente di turno per ottenere o mantenere privilegi professionali. Il tutto mentre altri Paesi ci superano, come qualità della vita e livello di civiltà. È questa la trama di “Quo Vado?” di Checco Zalone. Lui è di un’abilità sublime, e riesce a farti ridere anche quando la battuta è abbastanza scontata; ma di certo il film non può essere catalogato come comico, né come una commedia. Questo capolavoro cinematografico è un documentario.

Se sei un genitore, e non riesci a spiegare a tuo figlio come funzionano le cose in Italia, portalo a vedere “Quo Vado?” di Zalone: la pellicola, da sé, vale molto più delle tue parole. A bambini e ragazzi si potrà così illustrare cos’è la corruzione, cosa la concussione. E perché alla fine i giovani più brillanti fuggono a gambe levate dall’Italia.

All’uscita dal cinema, ho sentito anche critiche da parte di diversi spettatori. Normale: perfino Charlize Theron può non piacere, e addirittura l’Inter del Triplete suscitava indignazione. Non si può risultare graditi a tutti. Il fatto è che Zalone, con “Quo Vado?”, non utilizza il fioretto, non gira intorno alla questione; arriva invece dritto al cuore del problema con un apriscatole molto tagliente. Magari, se ti riconosci in uno dei personaggi del film, ti offendi: il raccomandato, il lavoratore scemo, il parassita sociale, l’ebete che succhia denaro pubblico, la bestia che sfrutta le disabilità parentali. Però questa è l’Italia, e Zalone te la sbatte in faccia con crudeltà. Creando un documentario che entra nella storia del cinema.

sabato 2 gennaio 2016

Elogio de “Il fantasma della Garbatella”, di Gabriele Mazzucco

Cominciamo dal quartiere, a Roma: la Garbatella. Una delle zone più affascinanti del globo terracqueo, con architetture civili e religiose mozzafiato. Sicché, il titolo dell’opera teatrale, “Il fantasma della Garbatella”, già di per sé mi attizza. Ma ancor di più lo spettacolo, scritto e diretto da Gabriele Mazzucco, che va in scena dal 7 al 10 gennaio 2016 al Teatro Ambra alla Garbatella. La Compagnia degli Artigialli dà vita a un’opera viva e vera, proprio come lo storico quartiere della Città Eterna in cui è ambientato. Sottilmente comico, argutamente ironico, lo spettacolo vede Lallo fra i protagonisti, un ragazzo con una cugina stralunata, Angelina. Oltre a un “amico del cuore” malandrino, Orazio, e un fratello gemello stalinista e dal forte accento abruzzese, più una fidanzata bella, innamorata ma non proprio fedele, Matilde. Ed ecco il mistero: Lallo è morto, tre anni prima, in circostanze misteriose. Ed è tornato in vita su ordine preciso di Dio, accompagnato dall’Arcangelo Raffaele, per valutare se il genere umano sia pronto a un ritorno sulla Terra del Messia, Gesù, oppure per constatare se a distanza di più di duemila anni l’uomo sia rimasto sempre lo stesso. 

Scelta come campione, questa combriccola della Garbatella è protagonista di improbabili gag, incomprensioni, misteri. Si ride parecchio, ma sino a un certo punto: c’è anche un minimo di riflessione sul genere umano. Scritto al fine di intrattenere con continui cambi di situazione il pubblico, “Il Fantasma della Garbatella” è infatti “una storia con personaggi mani, dolcemente buffi e assurdi - dice il regista - costretti a fare i conti con una serie di difficoltà a molti di noi ben note, suocere perfide, politicanti in malafede, bollette da pagare, turni di lavoro massacranti e soprattutto… l’imponderabile ira di Dio”. Amorevole spaccato di una romanità popolare in estinzione, “Il Fantasma della Garbatella” racconta aneddoti tramandati all’interno del quartiere, veri o verosimili, nascosti dentro una storia che ha l’ambizioso obiettivo di indagare le capacità di perdono degli uomini e delle donne di oggi. Con Andrea Alesio, Chiara Fiorelli, Federica Orrù, Paola Raciti, Armando Sanna. Lo consiglio ai romani e no.